Il 23 gennaio 2017, arrivava la sentenza in primo grado che condannava a 11 anni di reclusione l’ex sindaco Francantonio Genovese, e a 2 anni e 6 mesi Franco Rinaldi, cognato di Genovese, nonché deputato regionale.
Oggi, quasi ad un anno di distanza, sono state depositate le motivazione della sentenza “Corsi d’oro2”.
I reati di cui Genovese, Rinaldi e altri 19 imputati sono accusati a vario titolo sono: associazione a delinquere, riciclaggio, frode fiscale, truffa e tentata estorsione.
Per i giudici della prima sezione penale del Tribunale di Messina, presieduta da Silvana Grasso, dalle prove raccolte emerge con chiarezza una “sistematica quanto capillare depredazione di risorse pubbliche”, attraverso “un’attenta regia delinquenziale”.
Regia senza alcun dubbio “a cura” di Francantonio Genovese, coadiuvato dalla cognata, nonché moglie di Rinaldi, Elena Schirò.
Schirò che per i giudici avrebbe rappresentato uno dei personaggi maggiormente attivi nella gestione delle onlus e delle società del gruppo Genovese.
Ad avere un ruolo centrale nelle accuse la gestione dell’ente di formazione Aram e Lumen. Per i giudici, infatti, quest’ultimo sarebbe stato usato dagli imputati avendo come unico intento quello dell’arricchimento personale, sfruttandolo come bacino elettorale da cui attingere voti o, all’occorrenza, come strumento attraverso cui appropriarsi indebitamente di denaro pubblico (si parla di 43 milioni di euro sottratti solo grazie all’ente) in barba, oltre che della legalità, delle speranze dei giovani che vi si affidavano con l’intento di arricchire le proprie competenze per garantirsi un futuro migliore,
Parte integrante di questo meccanismo criminale, volto esclusivamente a volgere a vantaggio degli imputati le risorse pubbliche destinate all’ente di formazione, l’acquisto a prezzo di mercato di “attrezzature e beni immobili” che venivano poi affittati allo stesso ente, a prezzi maggiorati, al fine di ottenere un ulteriore guadagno sulla differenza.
In altre occasioni si è invece rilevata la stipula di contratti di consulenza di fatto inesistenti, le cui fatture venivano inserite tra i costi di gestione dei progetti finanziati.
Infine, sulla base di quanto già esposto e degli ulteriori dettagli presenti nelle oltre 500 pagine della motivazione depositata, i giudici hanno dunque sostenuto che: “L’odierna decisione si fonda su plurime fonti di prova che hanno consentito nel corso del dibattimento di acquisire consistenti elementi probatori a sostegno delle accuse mosse agli imputati, in modo da pervenire, al di là di ogni ragionevole dubbio, all’affermazione della responsabilità di gran parte di essi”.